La moneta comune è la base dell’integrazione, ma non basta

Non è l’Europa di Rossi, Spinelli e Colorni, certo, ma è qualcosa su cui le generazioni presenti e future possono e devono lavorare per avvicinarsi a quel sogno. Che a distanza di settantatré anni dalla fine dell’ultima mattanza continentale si potesse realizzare una vera unione politica del continente era ed è impensabile. Differenze linguistiche, culturali, religiose, politiche, giuridiche, economiche rappresentano altrettanti ostacoli da superare e il tempo finora trascorso è troppo breve. A tutto ciò si aggiungano diffidenze secolari e sotterranee aspirazioni egemoniche che hanno fatto e fanno ancora oggi parte dell’humus su cui si sono formate e sono cresciute le identità nazionali. Tutto questo non si può cancellare con dei trattati, non si può estirpare dalla pancia delle popolazioni della parte più profonda dei singoli stati.

Sappiamo quanto sia stato e ancora sia difficile la costruzione dello stato unitario italiano, e sono passati centocinquantasette anni dalla sua proclamazione, figuriamoci l’unità di un continente nel quale per secoli si sono combattute le più lunghe e sanguinose guerre della storia. È per questo motivo che ciò che oggi tiene insieme quei popoli e dà loro una identità comune deve essere difeso, pena il disfacimento di quanto finora costruito, grazie alla lungimiranza e al genio politico di quanti si trovarono a contemplare le rovine dell’ultimo conflitto.

Ciò che oggi tiene insieme quei popoli e li rende consapevolmente partecipi di una unione reale è la moneta comune, a cui corrisponde, come naturale conseguenza, il superamento dei confini. Chiedere di interrompere questo processo di integrazione, o peggio ancora chiedere di uscirne isolatamente, significa interrompere un’esperienza che ha portato al più lungo periodo di pace e prosperità che la storia del continente europeo ricordi.

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Oggi meno di ieri si avvertono le contrapposizioni tra i popoli, e il fatto stesso di disporre in tutto il continente di ciò che abitualmente si porta in tasca in casa propria contribuisce a questa sensazione di uguaglianza, di identità, di similitudine tra chi pure ancora si esprime con lingue diverse. Quanto più ci si abitua a questo, tanto più sbiadiscono rendendosi indistinte le diffidenze reciproche e si accresce, al contrario, il senso di comunità. Sono sensazioni, nuovi sentimenti e percezioni che, pur lentamente, conducono inevitabilmente verso un maggiore desiderio di rafforzamento dei vincoli unitari. Immaginare una vera unione politica, oggi, sarebbe velleitario.

La democrazia presuppone partecipazione e la partecipazione presuppone comprensione esatta delle ragioni degli altri. Le differenze linguistiche non consentono di provare fiducia totale nei confronti di politici dei quali è anche difficile pronunciare il nome, figuriamoci decidere di riconoscersi nella loro leadership. Per questo c’è bisogno di tempo ed è necessario agire su tutti quegli altri aspetti della convivenza che rafforzino il senso identitario. Penso alla giurisprudenza, alle politiche fiscali, all’istruzione e, non da ultimo, alle politiche di sicurezza e difesa. Soprattutto la difesa, una volta messa in comune, finirebbe per rompere le ultime resistenze verso una completa integrazione, facendo venire meno l’idea stessa che si possa anche solo ipotizzare una ripresa dei conflitti sul suolo europeo.

Ma il primo passo è e rimane la moneta, perché la moneta rappresenta la nostra possibilità di soddisfare i bisogni, elementari e superflui, a prescindere da dove e con chi siamo, da Amburgo a Siracusa. Ecco perché resto convinto che il solo pensare di abbandonarla rappresenti un regresso verso un passato che si farebbe bene a studiare e studiare e studiare, dal momento che, non avendone le generazioni della seconda metà del novecento una conoscenza diretta, non c’è nulla di peggio che sottovalutarne i devastanti rischi che, da un suo ritorno, ne potrebbero conseguire. Coloro i quali si dichiarano per la sovranità monetaria dimostrano di scegliere il piatto di lenticchie a scapito della straordinaria eredità lasciataci dai grandi statisti del dopoguerra. Al contrario, la Istituzioni che regolano e governano la moneta unica vanno rafforzate col conferimento dei poteri tipici di una vera banca centrale. Ma anche il governo dell’Unione deve essere ripensato al fine di giungere, per usare le parole di Paolo Savona, ad una “politeia” che superi, vada oltre le inadeguate tecnicality della “governance”. Senza moneta comune l’Europa tornerebbe ad essere un mero mercato aperto, ma all’interno di questo mercato avrebbero libero sfogo le spinte nazionalistiche, con tutti i rischi che conseguirebbero ad un loro ri-radicamento. Senza che si facciano dei sostanziali passi avanti verso una più forte integrazione, l’euro non potrà riuscire ad arginare queste spinte che già si affacciano minacciosamente all’orizzonte, anzi, finirebbe per essere il bersaglio principale contro cui scagliarsi, per la sua intrinseca debolezza dovuta alla sua “solitudine” di collante orfano.

E non c’è più molto tempo.

 Cesare Greco

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